Libertà di espressione, intimidazione, democrazia

Nell’informazione italiana l’intreccio tra interessi economici e politici è tale da rendere difficile la distinzione tra esigenze di mercato ed esigenze di “palazzo”. La proprietà editoriale è concentrata in pochi grandi gruppi che “fanno” il mercato, mentre una miriade di piccoli editori rischiano di fallire; nella televisione il duopolio Rai-Mediaset gestisce la gran parte delle entrate pubblicitarie e attira quasi tutto lo share, consentendo alla La 7 di portar via delle fasce importanti di pubblico solo in occasione di alcune trasmissioni evento. Nonostante questa scarsa pluralità dell’informazione, dal 1995 al 2006 il valore dell’industria della comunicazione è raddoppiato, passando, grazie anche allo sviluppo dell’Information & Communication Technology, da 53 miliardi di euro a 99 miliardi [1].

Numeri che però significano poco di fronte al triste primato di essere tra i peggiori paesi europei in quanto a libertà d’informazione. Secondo il rapporto di Reporter senza frontiere (Rsf) nel 2012 il nostro paese era al sessantunesimo posto nel mondo; uno scivolamento di dodici posizioni rispetto al 2009. L’indice di libertà di stampa è costruito con i dati raccolti intervistando giornalisti, ricercatori e giuristi che purtroppo continuano a segnalare preoccupanti violazioni del diritto enunciato nel 1948 nell’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo:

 «Ogni individuo ha diritto alla libertà d’opinione e d’espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere».

Violazioni che in altri paesi sfociano in omicidi e arresti, pressioni indebite, censura, monopoli, sanzioni dei reati a mezzo stampa, legislazioni restrittive ecc. L’Italia per il momento non è a questi livelli, ma un numero importante di giornalisti subisce umilianti intimidazioni. Il rapporto pubblicato da Ossigeno per l’Informazione – l’osservatorio della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e dell’Ordine dei Giornalisti – indica che nel 2011 sono stati 324 i giornalisti minacciati, un numero in aumento rispetto agli anni precedenti. Le minacce portano le firme della criminalità organizzata e di gruppi di matrice politica noti, ma anche di imprenditori, amministratori pubblici e uomini politici che ricorrono a querele e citazioni in giudizio per danni al solo scopo di nascondere notizie compromettenti.

Queste cifre mostrano uno Stato debole, e a volte persino compromesso, che avendo difficoltà ad incidere contro simili eventi deve compensare con l’ingombrante presenza di scorte armate e con misure di protezione per i lavoratori dell’informazione. È un corto circuito della democrazia. Perché la necessità di “proteggere” mostra non solo una preoccupante violazione del diritto di stampa sancito dall’art. 21 della nostra Costituzione, ma è anche l’ammissione di una debolezza istituzionale nei confronti di poteri paralleli allo Stato.

Per smascherare il ricatto che precede una pubblicazione, in un contesto che stenta a tutelare i giornalisti dalle aggressioni fisiche, dalla precarizzazione e sottovalutazione del lavoro, dall’autocensura, che poi è la conseguenza della paura di essere colpiti fisicamente o economicamente, può essere d’aiuto recuperare il pensiero di alcuni autori che hanno ispirato la libertà di espressione e di opinione. Principi che rischiano di essere frettolosamente e ingenuamente sminuiti sulla scia delle entusiasmanti promesse del web.

Quelle che seguono sono brevi frasi, estrapolate da testi noti, che possono aiutare a distinguere l’atto di esprimere un’opinione dal senso di tale atto. Perché se la libera espressione non è riconosciuta come un valore democratico primario, è facile che anche i contenuti siano screditati e che gli autori perdano l’autorevolezza di cui hanno bisogno per svolgere un servizio pubblico.

Nel 1644 John Milton scrive un accorato appello dal titolo Areopagitica. Per la libertà di stampare senza licenza:

«Non so che altro dovrebbe trattenervi dall’indicarvi un caso adatto per mostrare sia quell’amore della verità che eminentemente professate, sia quell’integrità di giudizio che non è vostra abitudine riservare solo a voi stessi, riesaminando quella Legge da voi stessi emanata per regolamentare la stampa» [2].

Milton faceva riferimento alla legge che reintroduceva alcune misure restrittive già previste dal Decreto della Camera Stellata del 1637. Misure che sarebbero servite solo a «scoraggiare ogni studio e a soffocare la Verità […]»[3]. La libertà di stampa, per Milton, coincide con la possibilità dell’uomo di evolversi e di migliorarsi.

«Se infatti siamo sicuri di avere ragione, e non sosteniamo con aria colpevole la verità, ciò che non s’addice, se inoltre noi per primi non condanniamo il nostro proprio insegnamento come debole e frivolo, e il popolo come un ignorante e irreligioso branco di vagabondi, che ci può essere di più bello che permettere a un uomo di giudizio, di studio e di coscienza, […] di rendere pubblico al mondo, non furtivamente di casa in casa, ciò che è più pericoloso, ma apertamente con i suoi scritti, quale sia la sua opinione, quali le sue ragioni […]?» [4].

Non c’è male peggiore che ostacolare una stampa veramente libera, e ogni idiosincrasia nei confronti di questo “bene comune” è un male. Per questo Jeremy Bentham, nel saggio Libertà di stampa e discussione pubblica (1821), afferma:

«Per quanto riguarda la saggezza, essa non può approssimarsi neanche alla perfezione senza avere a sua disposizione tutti quei mezzi di informazione, a largo raggio, che niente se non la libertà qui in questione [cioè, la libertà di stampa] può fornire» [5].

La formazione di una coscienza civica e democratica non può prescindere dall’acquisizione di competenze su argomenti di interesse generale, perché, come scrive Alexis de Tocqueville in La democrazia in America (1835):

«Quando si concede a ognuno il diritto di governare la società, bisogna anche riconoscergli la facoltà di scegliere fra le diverse opinioni che agitano i suoi contemporanei e di apprezzare i differenti fatti la cui conoscenza può servire da guida» [6].

Di conseguenza, secondo John Stuart Mill, che nel 1859 pubblica il noto Saggio sulla libertà:

«[…] Impedire l’espressione di un’opinione è un crimine particolare, perché significa derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro che dall’opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l’opinione è giusta, sono privati dell’opportunità di passare dall’errore alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare dal contrasto con l’errore» [7].

Per apprezzare questo beneficio è però necessario che il pubblico abbia coscienza di sé e che sia in grado di raccogliere le suggestioni utili, criticandole e ripercorrendole in modo costruttivo, e di scartare quelle dannose, come per esempio furono le idee naziste. In La filosofia tedesca: i due mondi (1915) John Dewey sostiene:

«Non tutte le idee passano senza lasciar traccia: vengono ripetute e altri le ascoltano, vengono scritte e altri le leggono. L’istruzione, formale o informale, le incorpora non tanto nella mente di altri uomini quanto nella loro permanente disposizione all’azione: quando sono nel sangue, le idee offrono sostegno al comportamento, quando sono nei muscoli, l’uomo combatte o si ritira» [8].

La libera diffusione delle idee è pertanto il presupposto del progresso, soprattutto quando alcune di queste idee riescono a scardinare modi di agire così consolidati da sembrare erroneamente naturali. Walter Lippmann in La giusta società (1937) scrive:

 «Come possono essere concepite nuove idee? Come possono formarsi nuove relazioni, nuove abitudini? È solo aumentando la libertà di pensare, di discutere e di polemizzare, di commettere errori e di imparare da questi errori, di esplorare e talvolta di scoprire, di avventurarsi rischiosamente e di essere intraprendenti, che i mutamenti potranno finire per prevalere sulla statica di una pratica burocratica che non farebbe che ripetersi» [9].

Infine, nello stesso saggio, Lippmann aggiunge:

«La ricerca della libertà è la rivendicazione di tutti coloro che producono le cose veramente buone e preziose della vita» [10].

*Tratto da M. Ferri,  “La libertà di espressione tra intimidazione e difesa del senso democratico”,  in «DESK», Anno XIX n.2, Istituto Universitario Sr. Orsola Benincasa e UCSI, Roma, 2012, pp. 20-23.

Note

[1] Istituto di Economia dei Madia (2008), L’industria della comunicazione in Italia. Undicesimo rapporto IEM. 1987-2008: le trasformazioni dell’industria della comunicazione in Italia, Torino, Fondazione Rosselli, Guerini e Associati, p. 41.

[2] J. Milton (1644), Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa, ed. Corriere della Sera, 2010, p. 14-15.

[3] Ibidem, p. 15.

[4] Ibidem, p. 52.

[5] J. Bentham (1821), Libertà di stampa e discussione pubblica, in J. Bentham, Libertà di gusto e d’opinione. Un altro liberalismo per la vita quotidiana, Bari, Dedalo, 2007, p. 226.

[6] A. de Tocqueville (1835), La democrazia in America, Milano, RCS Libri, 1999, p. 194.

[7] J. S. Mill (1859), Saggio sulla libertà, Milano, Il Saggiatore, 1981, p. 40-41.

[8] J. Dewey (1915), La filosofia tedesca: i due mondi, in J. Dewey, Scritti politici, Roma, Donzelli, 2003, p. 25.

[9] W. Lippmann (1937), La giusta società, Roma, Einaudi, 1945, p. 37.

[10] Ibidem, pp. 440-441.